Il body shaming costituisce reato? Ecco cosa dice la Legge – Il body shaming, ovvero l’atto di far sentire una persona in imbarazzo o vergogna per il proprio aspetto fisico, non è un fenomeno recente, ma solo negli ultimi tempi è stato preso in considerazione in maniera più seria, soprattutto a causa della maggiore visibilità data dall’uso dei social network. Sebbene queste piattaforme non siano direttamente responsabili del body shaming, possono certamente amplificarne gli effetti negativi quando vengono utilizzate in modo inappropriato.
Questo comportamento non solo è dannoso, ma può anche ledere diritti fondamentali come l’onore e la reputazione personale.
La giurisprudenza si è interessata a questo fenomeno, tanto che una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riconosciuto il body shaming come un reato, sottolineando la gravità di queste azioni e le possibili conseguenze legali per chi le compie.
Il body shaming include insulti, offese, giochi di parole, allusioni o comparazioni denigratorie, che possono avere un impatto significativo sulla vittima, soprattutto quando questi atti vengono diffusi su larga scala attraverso i social media.
La sentenza della Corte di Cassazione costituisce un precedente importante, evidenziando che certe forme di derisione e umiliazione pubblica non sono tollerate dalla legge, e chi si rende responsabile di tali comportamenti può essere perseguito penalmente.
Questo sviluppo giuridico rafforza l’idea che il rispetto della dignità personale e della reputazione debba essere mantenuto in tutti i contesti, inclusi quelli digitali, e che ci siano strumenti legali atti a proteggere le persone da abusi e comportamenti lesivi.
La sentenza n. 20251/2022 della Corte di Cassazione segna un punto di svolta nella lotta contro il body shaming, fornendo un chiarimento giuridico su come questa condotta possa essere inquadrata legalmente. Secondo la Corte, il body shaming può configurarsi come reato di diffamazione o diffamazione aggravata, a seconda delle circostanze in cui le offese vengono perpetrate.
Il caso preso in esame dalla Corte riguardava un post su Facebook in cui l’autore insultava una persona ipovedente, mettendo in evidenza come i social network possano amplificare la portata delle offese, raggiungendo un numero molto più ampio di persone rispetto a un insulto proferito in privato.
La Corte ha sottolineato che, per la configurazione del reato di diffamazione, è rilevante il fatto che la vittima non fosse presente (e quindi non in grado di difendersi) al momento della pubblicazione del post offensivo. Questo aspetto è particolarmente significativo nei social network, dove la “presenza” della vittima è spesso non fisica ma virtuale.
La distinzione tra diffamazione e ingiuria è cruciale: la diffamazione si verifica quando le offese sono rese pubbliche e possono danneggiare la reputazione di una persona assente, mentre l’ingiuria riguarda offese proferite direttamente alla persona interessata, configurandosi come un illecito civile che può comunque comportare un risarcimento dei danni.
Questa interpretazione della legge da parte della Corte di Cassazione evidenzia l’importanza di considerare i contesti virtuali come estensioni dello spazio pubblico, dove le parole hanno il potere di raggiungere e influenzare la percezione di un pubblico molto vasto.
In questo modo, si riconosce la gravità delle offese perpetrate online e si offre un meccanismo legale per tutelare le vittime di body shaming.
Il body shaming può manifestarsi in molteplici forme, alcune delle quali possono non essere immediatamente riconoscibili come offese. Nonostante la pratica sia diffusa da tempo, solo di recente la giurisprudenza ha iniziato a occuparsi più specificamente di questa condotta, delineando i contorni in cui essa può costituire reato. Basandosi sui precedenti giuridici, si evince che il body shaming non configura reato di diffamazione nelle seguenti situazioni:
- Quando la vittima è direttamente presente alle offese, situazione che precedentemente ricadeva sotto il reato di ingiuria, ora depenalizzato.
- Se le offese vengono comunicate soltanto a una persona, senza che vi sia diffusione ulteriore delle stesse.
- Nel caso in cui si verifichi body shaming senza che ci siano attacchi diretti e evidenti alla reputazione dell’individuo. Un esempio può essere rappresentato da video che espongono la vittima in situazioni imbarazzanti, evidenziando aspetti fisici in modo derisorio, ma senza offendere esplicitamente la sua reputazione. Questi casi possono rientrare nel trattamento illecito di dati personali piuttosto che nella diffamazione.
Tuttavia, il body shaming può essere considerato reato di stalking qualora le azioni denigratorie costringano la vittima a cambiare le proprie abitudini di vita a causa di uno stato di ansia o paura continuo. Questo amplia il campo di azione legale contro il body shaming, evidenziando la gravità di tali comportamenti anche quando non configurano un reato di diffamazione.
Al di là delle specifiche fattispecie di reato, le persone vittime di body shaming possono comunque rivendicare il diritto a un risarcimento per il danno morale subito. Questo aspetto sottolinea l’importanza di riconoscere e tutelare la dignità individuale contro ogni forma di umiliazione o derisione, anche nelle sue manifestazioni più subdole o indirette.