Nel caso ci Càmice e camicie, tutti ci arrivano: il plurale di camicia fa camicie, per distinguerlo, dicono, dal singolare càmice, ed è un discorso inutile, perché tutti capiscono quando si tratta di camicie e quando si tratta di càmici.
La questione è un’altra: che la sillaba cie di «camicie» ha valore diverso dalla sillaba ce di «camice», sebbene abbia pressappoco lo stesso suono (ma i ben parlanti fanno sentire la distinzione anche nella pronuncia). L’i della sillaba finale di camicia ha pieno valore vocalico; non è un semplice segno fonetico come l’i di sciocchezza o di mangiare.
Certo, non è facile distinguere l’i fonetico dall’ i etimologico; e in molti casi il dubbio è legittimo: in ciliegia si percepisce ancora il suono di cerasea? E in pioggia quello di pluvia?
Grammatiche e dizionari non forniscono grandi lumi; le grammatiche, per lo più, rimandano alla cunsultazione di un dizionario, o danno come regola che le parole in cui la sillaba cia o già è preceduta da vocale hanno il plurale in eie e gie (camicie, valigie) e quelle in cui è preceduta da consonante lo hanno in ce e ge (spiagge, gocce, arance). Tale regola è seguita di solito dal Carducci: acacie, pance nitide; ma anche grige chiome; il Pascoli, invece, ha froge, ma: veccie, quercie, erbuccie, freccie, frangie, lande.
Lo Zingarelli, nel suo dizionario, si attiene al criterio fonetico (camice, valìge), e riserba il plurale in cie e gie soltanto alle parole in cui permane la grafia latina e che egli registra con la dieresi: audacie, fiducie, acacie. Il Palazzi ha camicie, valigie, ciliegie; ma province.
Gente letterata, abituata alle regie università, mal digerisce quel «valige», specialmente se inalberato come insegna di un negozio, o quel «province», che troppo si discosta dalle provinciae di Giulio Cesare. A mala pena possiamo tollerare ciliege, grazie al dittongo ie della sillaba centrale su cui cade ovviamente l’accento tonico.
Chi ha fatto decentemente le sue umanità tenderà sempre a rispettare 1’i etimologico; e del resto nessuno potrà condannare il plurale femminile in cia e già formato secondo la regola semplice e generale del cambiamento dell’a in e (ciliegia ciliegie, faccia faccie pronuncia pronuncie, ecc.).
Ma le giovani generazioni amano la brevità; e i plurali in ce e ge, preceduti o non preceduti da consonante, finiranno col prevalere. Nelle scuole, naturalmente, si adotterà l’una o l’altra desinenza secondo il gusto dell’insegnante; ma nessuna delle due dovrebbe essere condannata col lapis blu.
Condannate saranno giustamente le forme superfice, effige e spece, igene e igenico, scenza, efficenza, sufficenza (nelle quali tutte l’i è necessario ed essenziale, perché appartiene non alla desinenza, ma alla radice) e viceversa beneficenza, munificenza e simili (dove l’i è superfluo e scorretto).